“Nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22)
La festa del Battesimo del Signore 2020 segna l’inizio della prima visita pastorale del nostro vescovo Fernando[1]. Secondo il Codice[2] «il Vescovo è tenuto all’obbligo di visitare ogni anno la diocesi, o tutta o in parte, in modo da visitare l’intera diocesi almeno ogni cinque anni». San Giovanni Paolo II, riprendendo un’antica definizione della visita pastorale “come anima del ministero episcopale” (quasi anima episcopalis regiminis), così ne precisa il modo: «il Vescovo privilegi l’incontro con le persone […] soprattutto […] con le persone più povere, con gli anziani e con gli ammalati. Realizzata così, la Visita pastorale si mostra qual è, un segno della presenza del Signore che visita il suo popolo nella pace»[3].
Nell’orizzonte della nuova evangelizzazione[4], anche la nostra chiesa locale, collocata nel Salento e protesa come un faro per illuminare e per gettare ponti di incontro e di dialogo sul Mare nostro, è chiamata a vivere e annunciare la gioia del Vangelo a tutti gli uomini, figlie e figli dell’unico Padre, con gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: l’umiltà, il disinteresse, la beatitudine. L’esodo da noi stessi e da ogni forma di narcisismo, clericalismo e funzionalismo, permetterà al Signore di convertirci e renderci capaci di ascoltare, come fa Lui, il grido della nostra gente, per diventare un po’ più misericordiosi, riflesso della misericordia del Padre che risplende sul volto di Gesù, accogliendoci e amandoci come Lui ci ama[5].
Nel solco della tradizione viva, che anima la pietà popolare ereditata da coloro che ci hanno preceduto, vorrei proporre tre icone bibliche per gustare interiormente e realizzare concretamente quanto lo Spirito santo suggerirà attraverso questo evento di grazia nella storia della nostra chiesa diocesana.
La visita di Dio
Ogni mattina tutta la chiesa prega col cantico di Zaccaria: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo […] Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,68.78s). La visita di Dio, da sempre e per sempre, manifesta la sua misericordia. Come si è rivelata nel passato ai nostri padri, così ora raggiunge la sua pienezza in Gesù. Egli è la visita definitiva di Dio che salva l’uomo e lo guida sulla via della pace, comunicandogli col suo Spirito la vita piena della gioia del Vangelo. Tutti infatti riconoscono che «Dio ha visitato il suo popolo», dopo che Gesù ridona l’unico figlio morto alla vedova di Nain (Lc 7,16). E, concludendo il lungo viaggio per salire a Gerusalemme (Lc 9,51-19,28), Gesù stesso, alla vista della città, «pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! […] non lasceranno in te pietra su pietra perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”» (Lc19,41.44). Il cammino di Gesù, visita di Dio che attraversa il suo popolo Israele salendo a Gerusalemme per compiere il suo esodo da questo mondo al Padre, continua nella missione della chiesa madre e nell’apertura alle nazioni (cf At 15,14). A partire da Gerusalemme la Buona Notizia della conversione e del perdono dei peccati, nel nome del Messia risorto e mediante il potere del suo Spirito, arriverà, attraverso la Giudea e la Samaria, a tutte le nazioni della terra (Lc 24,47- 49.52; At 1,4-5.8.12-14; 2,5.14).
Facciamoci aiutare dalle Scritture ebraiche, che Gesù ha perfettamente e pienamente compiuto, per gustare la visita di Dio nella nostra vita e diventare di più quello che siamo: testimoni, discepoli-missionari, chiamati ad essere anche noi visita vivente di Dio in mezzo al suo popolo.
Al termine “visita” (episcopé) e al verbo “visitare” (episképtomai) corrispondono dei termini ebraici (paqad, baqar, darash) che significano “guardare, sorvegliare, difendere, considerare, ispezionare, fare attenzione, occuparsi, venire a vedere, venire a cercare, dedicarsi, prendersi cura, ricordarsi, visitare” … sempre nella cornice degli interventi salvifici di Dio (Es 20,5-6; Sir 5,6; 16,11; Zc 10,3)[6]. Dio visita per aiutare e per giudicare, per correggere e fare la verità, per stabilire il suo regno in mezzo al suo popolo, determinandone il cammino. Seguiamo, a volo di rondine, il racconto di queste visite. Sara visitata da Dio (Gen 21,1-2), nonostante sterilità e vecchiaia, concepisce e partorisce Isacco secondo la promessa (Gen 18,1-5). Adempiendo la speranza espressa da Giuseppe (Gen 50,24-25), Dio si dà pensiero, viene a vedere, visita e fa uscire il suo popolo dall’Egitto (Es 2,24-25; 3,16.18; 4,31; 13,19; Sal 80,9-17). Il Signore ha cura e posa i suoi occhi sul Paese che ha donato al suo popolo “dal principio dell’anno sino alla fine” (Dt 11,12). La buona notizia: “Dio ha visitato il suo popolo dandogli pane” fa intraprendere a Noemi e Rut la via del ritorno verso Bethlehem (= la casa del pane, Rt 1,1.6). Il Signore esaudisce la preghiera di Anna e la rende madre di Samuele e di altri tre figli e due figlie (1Sam 1,11.19-20; 2,21; cf Lc 1,24-25.36.48). Visitando, Dio fa giustizia anche su città e regni dei pagani: dopo la distruzione, dimenticata per 70 anni, Tiro sarà visitata dal Signore (Is 23,15-18); tutti i re della terra saranno puniti e imprigionati da Colui che regna in Sion (Is 24,21-22). La visita terribile del Signore delle schiere fa svanire come un sogno l’assedio posto dalle nazioni alla sua città già prostrata (Is 29,1-12). Il popolo dei deportati rimarrà in esilio finché il Signore non li cercherà, li visiterà e li ricondurrà (Ger 27,21-22; 29,10-20; 32,5). Sempre, difronte alla creazione, cresce lo stupore e la meraviglia per un Dio che visita, guarda, si prende cura, cerca e … salva (Gb 10,12; Sal 8,4-5; 65,10-12)[7].
La visita di Dio fa verità, raddrizza, mette a posto, orienta nella confusione degli intrecci e interessi umani che manipolano fatti e persone, nello scorrere veloce del tempo, e imprime, nelle fragilità e nelle tragedie quotidiane, l’anelito verso il bene che dura per sempre, lo shalom del riposo eterno di cui il sabato, il giorno di festa, il giorno dell’incontro è segno, fonte e culmine. Perciò la visita è immagine dell’ultimo tempo dell’alleanza (Ez 34,10-16; Sof 2,7; cf Mt 18,12-14; Lc 15,4-7; 1Pt 2,25; 5,2-4; Eb 13,20) e, svelando i segreti dei cuori, il giorno della visita manifesta il giudizio ultimo e la vittoria definitiva del bene sul male, con l’instaurazione perpetua della Signoria di Dio. Insieme a Israele, che attende e invoca la visita del suo Signore, riconoscendo in Gesù la visita definitiva di Dio, ciascuno di noi, intimamente unito a Lui, nella chiesa suo corpo, può pregare: «Ricordati di me, Signore, per amore del tuo popolo, visitami con la tua salvezza» (Sal 106,4). E accogliendo la visita di Dio, possiamo anche noi, come Gesù, diventare quotidianamente attraverso le opere di misericordia segno di Dio che visita e salva i più piccoli, gli ultimi, chiunque si trovi in situazione di bisogno. La misura di questo amore che visita e accoglie ci renderà alla fine degni di entrare nella vita eterna (cf Mt 25,31-46).
Alla sequela di Gesù, il nostro cuore desidera salire a Gerusalemme per essere poi accolti in cielo. Il compimento di questa nostra vocazione è perfettamente preannunciato e prefigurato dalla Vergine assunta in cielo. La nostra salita, però, come quella di Gesù, non è un cammino solitario verso il cielo. Essa è simultaneamente una visita a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, nell’attesa che venga il Figlio dell’uomo nel suo giorno. Maria, visitata dalla salvezza di Dio (= Yeshua’a, Gesù), visita a sua volta Elisabetta, condivide con lei la propria benedizione-beatitudine e la serve (Lc 1,39-56). Maria di Nazareth, Figlia di Sion, personificazione dell’Israele credente in Gesù, è la figura della Grazia itinerante di Dio nella storia umana. La visita trova nella Vergine della visitazione (Foederis Arca) la sua icona vivente e questa icona esprime l’impegno quotidiano che il Papa ricorda e chiede a ciascuno di noi:
«Ora che la Chiesa desidera vivere un profondo rinnovamento missionario, c’è una forma di predicazione che compete a tutti noi come impegno quotidiano. Si tratta di portare il Vangelo alle persone con cui ciascuno ha a che fare, tanto ai più vicini quanto agli sconosciuti. È la predicazione informale che si può realizzare durante una conversazione ed è anche quella che attua un missionario quando visita una casa. Essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù e questo avviene spontaneamente in qualsiasi luogo, nella via, nella piazza, al lavoro, in una strada» (Evangelli Gaudium [in seguito EG] 127).
Pastore e gregge in una chiesa in uscita
Ricordando la chiamata alla conversione missionaria della chiesa locale — la cui «gioia di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella sua preoccupazione di annunciarlo in altri luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali» entrando «in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (EG 30) — con l’obiettivo, per tutti i processi partecipativi, del «sogno missionario di arrivare a tutti» (EG 31), così Papa Francesco delinea la figura del pastore.
«Il Vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuore solo e un’anima sola (cfr At 4,32). Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade» (EG 31).
Il quadro del cammino di comunione di una chiesa in uscita, tratteggiato dal Papa, fa riecheggiare nel cuore quel gioiello letterario che è il Sal 23(22). In questa preghiera, le due immagini del pastore e dell’ospite incastrano e sono tenute insieme al centro dall’affermazione piena di fiducia: «non temo alcun male perché Tu sei con me» (v. 4b). L’intimo rapporto col Signore vince ogni male, nella valle oscura del pericolo e della morte, e ci fa ritornare sempre di nuovo bambini, quando sperimentiamo che l’angoscia dell’oscurità è vinta dalla presenza cercata e trovata di una persona familiare che ci prende per mano e ci conduce. È la fede che vince la paura con la gioia della comunione che riapre il cammino verso nuovi orizzonti. Allora sperimentiamo che nel dono di questa intimità tra il pastore e le pecore, ciascuna pecora si sente amata, conosciuta e chiamata per nome, anche nel frastuono urbano o nel silenzio di una valle deserta, anche quando il buio o gli ostacoli impediscono la visione. Meravigliata e sorpresa, percepisce la presenza del pastore che con segni familiari, come nel linguaggio muto degli innamorati, si fa sentire e comunica, precedendo o accompagnando, mettendosi avanti, in mezzo o dietro secondo i bisogni, le circostanze e le indicazioni che vengono dal di dentro e dal di fuori. Con gioia l’intero gregge e ciascuno, all’interno e all’esterno, può esprimere la sua identità relazionale: «il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (Sal 23,1) e, proprio perché lo ha sperimentato, può ripetere con l’apostolo Paolo: «tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13) perché pregando abbiamo riconosciuto la sua voce che nell’intimo anche a noi continuamente sussurra: «ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9) e «chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).
Quando delusi siamo tentati di rinchiuderci nel recinto o, affaticati e stanchi, ci sediamo incapaci di riprendere il cammino o addirittura, presi dall’efficienza organizzativa o dall’affanno per situazioni di disagio e interessi individualistici, ci sentiamo disorientati e senza speranza, come fiere abbrutite dalla violenza e dall’inequità, prodotte da cuori induriti, allora ritorniamo al realismo e alla concisione dell’esperienza espressa dall’immagine del pastore per ritrovare la freschezza di un entusiasmo di vita che, con la curiosità e la fiducia di un bambino abbracciato a un familiare, allarga il cuore e dilata gli spazi alla gioia del vangelo. Ci può aiutare questa parafrasi della prima parte del Sal 23.
«In mezzo al deserto o a una landa sterile e desolata, fiorisce lussureggiante un’oasi con la sua sorgente. Le pecore si sdraiano sul verde tenero, si abbeverano all’acqua e si sentono ritornare le forze. Poi si mettono in cammino: il pastore, facendo onore al suo titolo, guida il gregge per il sentiero giusto, che egli conosce a menadito, evitando così che le pecore si smarriscano sbagliando il sentiero. Durante la marcia attraverso una valle, piomba l’oscurità; le pecore, con il loro scarso senso dell’orientamento ed incapaci di vedere il pastore, obbediscono a segnali di suono e di tatto: un colpo leggero con il bastone rimette sul sentiero quelle che si sviano, incita quelle che si attardano indietro; mentre il colpo ritmico scandito dal vincastro sopra le pietre le rende tranquille e sicure di una presenza conosciuta e familiare»[8].
Non è la sicurezza di chi si sente arrivato, affermato, realizzato, ma quella di chi si sente consolato, incoraggiato, rasserenato, perché teneramente amato da viscere materne[9]. Allora, da gregge disperso, perché ciascuno pretendeva di seguire la sua strada (cf Is 53,6; 1Pt 2,25), ci meravigliamo sempre di nuovo nel vederci riuniti da Lui e solidali tra di noi, resi capaci di seguire l’Agnello dovunque vada (cf Ap 14,4), per testimoniare la gioia di una vita gratuitamente ricevuta e gratuitamente rinnovata.
Ma le sorprese non sono finite. Il Pastore si rivela ospite che accoglie nella tenda che ha piantato al centro della terra per renderla, come dal principio ha sempre voluto, il giardino-paradiso della comunione. Mi accoglie e mi offre da mangiare e da bere «sotto gli occhi dei miei nemici», cioè di chiunque, scegliendo l’inequità causa di ogni iniquità, sia diventato bestia feroce non “addomesticata”. Questi “animali-nemici” si arrestano impotenti fuori dal recinto, a meno che non si lascino anch’essi trasformare dalla misericordia e riconoscano il dono gratuito e disinteressato della relazione “familiare” che da nemici li trasforma in persone di casa, familiari, fratelli e sorelle, perché tutti figli dell’unico Padre. Questo Pastore-Padre non solo mi accoglie alla sua mensa, ma non dimentica l’unzione del banchetto, profumo di festa e protezione tonificante di vita. Viene in mente il rimprovero di Gesù a Simone il fariseo che lo aveva invitato: «Tu non hai unto con olio il mio capo, lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo» e l’affermazione sulla peccatrice che scandalizza i commensali: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,46-47). Nell’ultimo versetto (Sal 23,6) l’immagine del pastore e dell’ospite cedono il posto alla stessa realtà di Dio Padre misericordioso, intravista attraverso la personificazione di Bontà e Fedeltà, qualità del Signore donate come scorta nella continua ripresa del cammino «per tutti i giorni della mia vita». Sorprende che insieme al cammino ci sia simultaneamente l’abitare nella casa del Signore «per lunghi giorni». Tutta la vita è un cammino o un abitare nel tempio? Il salmo rimane aperto: bisogna pregarlo per tutta la vita, ricominciando sempre di nuovo il cammino, per abitare ora e sempre nella casa-famiglia di Dio. Nella prospettiva della finale aperta del salmo, attraverso la preghiera e il discernimento, possiamo diventare sempre più esperti consapevoli del primo dei quattro criteri riproposti da Papa Francesco per la «costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità»: «il tempo è superiore allo spazio» (EG 222-225).
«È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. […] Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce» (EG 223). «Questo criterio è molto appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga» (EG 225).
L’aver riconosciuto Gesù come il pastore autentico (cf Gv 10,1-18; 1Pt 2,25; 5,4; Eb 13,20; Ap 7,17; anche Lc 15,3-6 // Mt 18,12-14) ci colloca nella tradizione viva della chiesa e permette di riconoscerci nell’immagine del gregge in cammino, accompagnato dalla bontà e dalla fedeltà di Dio, fin quando giungeremo definitivamente nella casa del Padre. In questo cammino, come membra vive del corpo di Cristo, ci sostengono i sacramenti: l’acqua del battesimo che ci dona la vita, il viatico della mensa eucaristica, l’unzione. Diventiamo così sempre più discepoli-missionari alla sequela di colui che è il volto della misericordia del Padre, la gioia vivente del vangelo. La liturgia ci orienta a considerare il Sal 23 come un salmo sacramentale e così ce lo hanno trasmesso i commentatori antichi. A noi il compito di vivere e tradurre, con gesti concreti e comprensibili oggi, la ricchezza simbolica delle relazioni vitali che le immagini del pastore, del gregge e dell’ospite provocano nel nostro camminare insieme e abitare insieme su questa nostra terra che anela a diventare la casa-famiglia di Dio per tutti. Tra i commenti dei padri colpisce un’espressione di Eusebio di Cesarea. Egli nell’olio spirituale e nel cibo mistico vede il dono di Colui che «al compito di pastore aggiunse la condizione di sposo», di conseguenza «quelli che una volta erano schiavi hanno sperimentato una così grande trasformazione»[10]. Sono cioè diventati gli amici dello sposo.
La gioia degli amici dello Sposo
Quest’ultima immagine ci introduce al confronto con la dimensione sponsale dell’alleanza a partire dalla contemplazione dell’icona delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), «l’inizio dei segni compiuti da Gesù», quando «egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (2,11). È proprio quest’ultimo versetto che ci interpella e ci chiede di confrontarci con la fede dei discepoli. Questi nel “segno” riconoscono una manifestazione della “gloria”, cioè del valore e del peso della Persona del Figlio, quella Parola fatta carne che ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cf 1,1.14) e che, in un tempo e in luogo particolare, comincia il suo ministero rivelando la concretezza dell’amore del Padre, manifestandosi come «l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (1,35) e il buon pastore che «dà la vita per le pecore» (10,11).
Come possiamo riconoscere e vivere anche noi la novità inaugurata dal segno di Gesù che cambia l’acqua in vino, nel contesto così umano e gioioso di una festa di nozze?
Innanzitutto «il terzo giorno», nella trama del IV Vangelo, lega il racconto di Cana agli episodi precedenti, quello della testimonianza del Battista (1,19-34) e quello della chiamata dei “nuovi” discepoli (1,35-51); d’altra parte un orecchio attento non può non risentire la novità di questa indicazione temporale alla luce della rivelazione di Dio al Sinai (Es 19,11.15.16) e soprattutto dell’annuncio della risurrezione di Gesù (1Cor 15,4).
Mentre gli sposi non compaiono sulla scena, eccetto il momento in cui colui che dirigeva il banchetto chiama lo sposo (Gv 2,9-10), in primo piano emergono invece la madre di Gesù e Gesù invitato con i suoi discepoli (2,1.2). Poi, oltre alla conclusione sui discepoli “credenti” (2,11), prima del racconto della purificazione del tempio (2,13-22), una nota di passaggio, presenta madre, fratelli e discepoli con Gesù a Cafarnao (2,12), evidente immagine della nuova famiglia di coloro che «da Dio sono stati generati» (1,13). Questa famiglia, che Dio da sempre sogna e che ha preparato con l’elezione di Abramo e l’alleanza con Israele, ha nel segno di Cana il suo inizio e al Calvario la sua realizzazione (19,25-27).
Gesù si rivolge a Maria, chiamandola «Donna» (2,4) e così farà ancora dalla croce, quando la affiderà come “madre” al discepolo amato (19,26-27); a quel momento decisivo infatti rinvia l’espressione: «Non è ancora giunta la mia ora» (2,4; cf 7,30; 13,1). La madre, attenta alle persone nella situazione concreta, fa presente a Gesù il disagio sopravvenuto con la mancanza di vino che avrebbe rovinato la festa nuziale. E, nonostante la risposta interlocutoria di Gesù, dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!» (2,5)[11].
Qui avviene la svolta. Ci sono sei anfore di pietra (numero che indica incompiutezza, rispetto a sette) molto capienti per la purificazione rituale (2,6). Seguono tre ordini di Gesù (riempite d’acqua, prendete, portate) e la pronta esecuzione da parte dei servi (riempirono fino all’orlo, portarono). A questo punto la sorpresa di colui che dirigeva il banchetto nell’assaggiare «l’acqua diventata vino» e il rimprovero allo sposo che avrebbe tenuto da parte il vino «buono» (2,9.10; cf il pastore «buono» 10,11.14), con al centro la chiave per l’interpretazione: solo i servi «che avevano preso l’acqua» sanno la provenienza del vino buono (2,9)! Ricordando i tanti riferimenti biblici al vino come elemento di gioia, soprattutto nel banchetto preparato da Dio per la fine (Is 25,6; cf Gl 2,19), e la precisazione su chi ne conosce la provenienza, che anticipa la risposta a dubbi e domande sulla provenienza di Gesù e del Messia (Gv 7,27-28; cf 8,14; 9,29-30; 19,9), non è difficile comprendere come nei “servi”, e in tutti coloro che essi rappresentano, nasca spontanea la domanda sull’identità di Gesù: chi è costui?
Il lettore, già preparato dalla rivelazione del prologo, dalla testimonianza del Battista e dalla chiamata dei primi discepoli, riconosce nel vino nuovo la rivelazione di Gesù, il Vangelo[12], e si sente coinvolto nella nuova famiglia che Dio, come sposo d’Israele, presente nella persona di Gesù Messia-Sposo, edifica con il vino nuovo dell’alleanza definitiva ed eterna, alla quale guarda fin dall’inizio quella antica. Splendidamente Papa Francesco fa sua quest’espressione della Relazione finale del Sinodo sulla famiglia: «Il primo dei segni di Gesù […] è il vino nuovo dell’Alleanza di Cristo con gli uomini e le donne di ogni tempo»[13]. In questa nuova famiglia particolare e universale, con Maria e i discepoli, anche noi siamo invitati a “contemplare la sua gloria” e a “credere in Lui”, diventando, come Lui, “servi/diaconi”: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). Rinati dall’alto (3,3.7), cioè da acqua e Spirito (3,5), attraverso il battesimo, siamo resi capaci, come figli liberi (cf Gal 5,1; Rm 8,15), di lavarci i piedi gli uni gli altri seguendo l’esempio che Gesù ci ha donato (Gv 13,14s): «In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato (13,16). E mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue, rimaniamo in lui e diventiamo un po’ più simili a Lui (6,56s), fino all’amore più grande, quello di dare la vita per i propri amici (15,13): «Non vi chiamo più servi (doúloi), perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici (fíloi), perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (15,15). L’umiltà del servizio (diakonía), liberamente scelto perché liberati/serviti, ci fa entrare e rimanere in un’intima relazione di reciprocità con Gesù e tra di noi, anzi con tutti, come espresso dall’immagine della vite (15,1-8) e ci fa vivere il dono della comunione che ci rende Uno (17,11.21-22), unificati in Dio e capaci di manifestarlo al mondo come discepoli-servi-missionari. Scopo e frutto di questa intima relazione di alleanza, che da servi ci trasforma in amici, è «perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (15,11; cf 16,24; 17,13)[14].
Questa “gioia piena” promessa ai discepoli richiama il contesto nuziale dell’alleanza, prefigurata e inaugurata con la gioia del vino buono alla festa di nozze a Cana di Galilea. Ma al contesto di un banchetto (quello con i pubblicani e peccatori in casa di Levi: Mc 2,16-17), è legato anche il detto di Gesù che identifica se stesso come “sposo” e i suoi discepoli come “amici dello sposo”[15]: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze, quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno» (Mc 2,19-20 // Mt 9,15 e Lc 5,34-35). Il tempo della presenza dello sposo esige dai discepoli, come “amici dello sposo”, la partecipazione alla gioia e alla festa. Nel giorno dell’assenza, quando sarà strappato loro, esprimeranno col digiuno la loro tristezza.[16] Ma nel IV Vangelo, con un’altra metafora, quella della partoriente, Gesù promette: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,20b-22). Ecco l’ora della prova, come il travaglio di un parto, è superata dalla visita improvvisa e immotivata dello Sposo che dice “vi vedrò di nuovo”. È nel dono gratuito di questa intima relazione vitale che la presenza si fa comunione con la forza che rigenera la vita nell’alleanza eterna.
La gioia piena dei discepoli, quella che nessuno può togliere, è magnificamente espressa da Giovanni il Battista “l’amico dello sposo”: «Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto: “Non sono io il Cristo”, ma: “Sono stato mandato avanti a lui”. Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,27-30).
La testimonianza del Battista riguarda tutti noi come discepoli-missionari. Giovanni non ha, perché non ha mai avuto e non può avere alcuna pretesa messianica (cf 1,20); egli come “voce” (1,23) in relazione alla Parola o come lampada (5,35) in relazione alla Luce (cf 1,7), è solo un “mandato” (3,28; cf 1,6) “davanti” al Messia-Cristo (3,28; cf 1,15.30). Per questo “deve” uscire definitivamente dalla scena lasciando che egli il Veniente-Preesistente-Messia-Figlio venga e rimanga sempre più alla ribalta, in primo piano. Questa è la sua missione, il suo programma di vita conforme alla volontà ineludibile espressa dall’ “è necessario” del piano divino di salvezza (3,30). Precedendo e motivando questa conclusione, la metafora dell’amico dello sposo ci fa entrare nel cuore del Battista che svela, con un enigma, il culmine della sua autoconsapevolezza (3,29). Ricordando i testi profetici in cui l’immagine nuziale è riferita a Dio come sposo e a Gerusalemme/la comunità come sposa, – e in particolare la voce dello sposo e della sposa in Ger 7,34; 16,9; 25,10; 33,10-11; Ct 2,8.10.14; 5,2 – sullo sfondo del compito che l’amico intimo svolge nella celebrazione del matrimonio giudaico, Giovanni con la sua testimonianza scioglie l’enigma: la voce dello Sposo risuona ora in pienezza nel Messia. L’amico dello sposo, lasciando come firma testamentaria (cf 3,24: «Giovanni non era stato ancora gettato in prigione») la sua gioia compiuta, esce definitivamente dalla scena.
La sua missione è compiuta, permane però la sua testimonianza per continuare a indicare a Israele il suo Messia e ai discepoli, diventati figli, la realizzazione della loro vocazione-missione nel compimento pieno della gioia (cf Gv 15,11; 16,24; 17,13).
Maria, madre della Chiesa, «l’amica sempre attenta perché non venga a mancare il vino nella nostra vita» (EG 286), ci ottenga di vivere e testimoniare, come amici dello Sposo, la gioia piena del Vangelo, grazie alla visita di Dio che in Gesù continua a orientare i nostri passi sulla via della pace (cf Lc 1,68.78s).
Ettore Franco
[1] Indetta la domenica delle Palme (cf decreto, Bollario vol. I, n. 1/2019) e ufficialmente annunciata nella messa crismale.
[2] CJC 396 – §1.
[3] Esortazione postsinodale Pastores gregis (16.10.2003), 46.
[4] Dall’Evangelii Nuntiandi di san Paolo VI (8.12.1975) all’Evangelii Gaudium di papa Francesco (24.11.2013).
[5] Cf Papa Francesco, Discorso al V Convegno Nazionale della Chiesa italiana, Firenze 10.11.2015 (http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papa-francesco_20151110_firenze-convegno-chiesa-italiana.html) e Incontro con i partecipanti al Convegno della Diocesi di Roma 9.05.2019 (http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/may/documents/papa-francesco_20190509_convegno-diocesi-diroma.html).
[6] Cf W. Schottroff, «pqd visitare», in DTAT 2 (1982, or. 1975), 420-438; G. André, «pāqad», in GLAT VII (2007, or. 1989), 285-302; H.W. Beyer, «ἐπισκέπτομαι κτλ.», in GLNT III (1967, or. 1935), 731-796.
[7] Cf anche Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato Si’ sulla cura della casa comune (24.05.2015), 13: «La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato».
[8] L. Alonso Schökel – C. Carniti, I Salmi. 1, Borla, Roma 1992, 457-458.
[9] Nel testo ebraico l’ultima parola del Sal 23,4 yenaʲmñnÐ «mi rassicurano» è una forma (Piel impf. 3a m. pl. con suff. di 1a s.) del verbo nÊm “consolare”: «come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati (Is 66,13).
[10] Eusebio di Cesarea, Comm. In Ps. 23,5, PG 23,220 A.
[11] Più che l’ordine del faraone rispetto a Giuseppe (Gen 41,55), l’espressione sembra richiamare l’identità del popolo dell’alleanza al Sinai, espressa attraverso la disponibilità ad accogliere e attuare la volontà di Dio: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8; 24,7).
[12] Agostino, In Joannis Evangelium. IX,2, PL 35,1459: bonum enim vinum … id est, evangelium suum («il vino buono … cioè il suo vangelo»).
[13] Esortazione apostolica Amoris Laetitia (19.03.2016), 216.
[14] Papa Francesco, Esortazione apostolica Gaudete et exultate (19.03.2018), 122-128: «Gioia e senso dell’umorismo», dove la parola gioia ricorre 23 volte sulle 39 di tutta l’enciclica.
[15] Letteralmente: “i figli della tenda nuziale” (in ebraico benē chuppa), cioè gli amici più stretti.
[16] Il venerdì santo oltre al digiuno, il rito romano da sempre ci fa vivere la Passione del Signore senza la celebrazione eucaristica (dai miei nonni chiamata “la messa dimenticata” (in dialetto: scirrata); nel rito ambrosiano il “digiuno eucaristico” è per tutti i venerdì di quaresima.