Carità

La proposta della Caritas diocesana è quella di offrire delle tracce di riflessione sulla Evangelii gaudium di Papa Francesco e lasciarsi questionare dal brano biblico della moltiplicazione dei pani, soprattutto dall’invito fatto da Gesù ai discepoli: “Voi stessi date loro da mangiare” (Lc. 9, 13). La Carità missionaria è la forza che guida alla conversione. Per comprendere quello che il papa intende per conversione missionaria della nostra pastorale sarà utile fare un riferimento a quanto egli stesso ha espresso durante il viaggio del 2013 a Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù. Incontrando i vescovi del CELAM, egli distinse due dimensioni della missione: una programmatica e l’altra paradigmatica. Disse che “la missione programmatica, come indica il suo nome, consiste nella realizzazione di atti di indole missionaria. La missione paradigmatica, invece, implica il porre in chiave missionaria le attività abituali delle Chiese particolari”. “L’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa”. (Evangelii Gaudium, 15)


CARITA’ è MISSIONE

  1. Come la nostra comunità parrocchiale vive l’incontro con Cristo e ne testimonia concretamente la gioia nella vita quotidiana?

“La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni”. (Evangelii Gaudium, 1)

  1. Il vivere la carità è in primis azione riflessiva, ovvero, ha una ricaduta personale: anche chi la compie materialmente deve interrogarsi se si sente toccato dall’amore di Dio. Da questo amore si crea relazione o il vivere la carità è una serie di azoni tendenti solo a tranquillizzare le nostre coscienze? Alla speranza cristiana della ricerca del Regno di Dio, a cui nulla della vita dell’uomo risulta estraneo, quanto fa eco il “generare storia” (Es. Centri di Ascolto, accompagnamento, distribuzione viveri?).

“Leggendo le Scritture risulta peraltro chiaro che la proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione personale con Dio. E neppure la nostra risposta di amore dovrebbe intendersi come una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso, il che potrebbe costituire una sorta di “carità à la carte”, una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare la propria coscienza. La proposta è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno: «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Il progetto di Gesù è instaurare il Regno del Padre suo; Egli chiede ai suoi discepoli: «Predicate, dicendo che il Regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7)”. (Evangelii Gaudium, 180)

  1. “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo… Perciò va’! Io ti mando” (Es. 3, 7-10) La nostra comunità ascolta e si lascia provocare dal grido dei poveri? Sono poveri o impoveriti? (Metodo Caritas: Osservare-Ascoltare-Discernere)?

“Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo. È sufficiente scorrere le Scritture per scoprire come il Padre buono desidera ascoltare il grido dei poveri: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo … Perciò va’! Io ti mando» (Es 3,7-8.10), e si mostra sollecito verso le sue necessità: «Poi [gli israeliti] gridarono al Signore ed egli fece sorgere per loro un salvatore» (Gdc 3,15). Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto, perché quel povero «griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te» (Dt 15,9)”. (Evangelii Gaudium, 187)

  1. La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. La nostra comunità in uscita è una comunità di discepoli missionari che “prendono l’iniziativa, si coinvolgono, accompagnano, fruttificano, festeggiano?”

“La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo. […]. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. (Evangelii gaudium, 24)

  1. La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. La nostra comunità parrocchiale si sente “marcata a fuoco dalla missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare”?

“La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare. Lì si rivela l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri. Tuttavia, se uno divide da una parte il suo dovere e dall’altra la propria vita privata, tutto diventa grigio e andrà continuamente cercando riconoscimenti o difendendo le proprie esigenze. Smetterà di essere popolo”. (Evangelii Gaudium, 273)


Icona biblica: LA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI – Lc. 9, 10-17 parr.

ACCOGLIERE.

È il Signore stesso che si fa esempio di accoglienza e di servizio, annunciando il Regno di Dio e guarendo alcuni malati che si trovavano lì in mezzo e poi nutrendo la folla con pani e pesci. L’accoglienza è un’apertura, un far entrare le persone in un gruppo, stare insieme, non farli sentire “diversi”, isolati dal resto, ma una vera e propria comunità. Il far accomodare (Lc 9,15) mettendosi seduti – il testo greco dice letteralmente “coricati/sdraiati” – è un verbo tipico di Luca, lo troviamo anche nell’incontro di Gesù con i discepoli a Emmaus (Lc 24, 30). Nei pranzi festivi, soprattutto coloro che potevano permetterselo, mangiavano sdraiati, adagiati su lettucci. Chi poteva banchettare in tal modo? Solo coloro che avevano la possibilità di avere alle proprie dipendenze dei servi. Gesù, in questa pericope, dà il compito alla sua comunità, ai discepoli di ieri e a quelli di oggi, di far sdraiare, cioè di far sentire la gente di qualsiasi ceto sociale, dei veri e propri signori, persone importanti per noi.

La capacità attrattiva di Cristo aveva fatto dimenticare alla folla tutto, anche il bisogno di nutrirsi, che nel deserto difficilmente può essere soddisfatto se non si è provveduto a portare con sé il necessario. I discepoli, abituati a seguire il maestro nel suo peregrinare per villaggi e luoghi desertici, avevano portato solo cinque pani e due pesci, bastanti a malapena a soddisfare la loro fame.

DATE VOI STESSI DA MANGIARE.

Il grande miracolo che questa pericope ci presenta, non è tanto quello di aver moltiplicato i cinque pani e i due pesci in maniera inspiegabile, quanto la capacità di Gesù di fare in modo che la folla affronti il problema della mancanza di cibo partendo da se stessa e dai mezzi di cui dispone. La carità (l’amore) non è qualcosa che si può comprare, è un esclusivo atto di donazione. È nel donare che ci compromettiamo, cioè ci rendiamo disponibili a stabilire un progetto con l’altro. Il poco, se dato cum caritatis (con amore), Gesù lo moltiplica. Quando si condivide, ce n’è sempre e avanza! Il Maestro qui ci parla di dare, cioè di condividere con tutti, ma i discepoli ragionano con una mentalità ristretta, materialistica e pensano al “comprare per condividere”. Il “Date voi stessi da mangiare” di Luca, può avere una duplice lettura: i discepoli danno da mangiare, divenendo servi della moltitudine, mettendosi a servizio per sfamare tutti; ma anche dare, donare tutto se stessi, “farsi mangiare” dai fratelli. Questo è un richiamo alla totalità del dono di sé che avrà la sua pienezza quando Gesù darà se stesso come pane da mangiare e vino da bere, sino al sacrificio della propria vita sulla croce.

FURONO SAZIATI.

La preghiera di Gesù compie il miracolo. Se la carità non viene alimentata dalla preghiera, non è più carità, è filantropia. Quelli che Gesù compie non sono altro che gesti liturgici. L’Eucarestia è sacramentum caritatis, sacramento dell’amore. “Tutti furono saziati”: è un vero annuncio profetico. Gesù sazia la moltitudine, non tanto perché placa un bisogno momentaneo, quanto perché all’atto dello sfamare, elimina le inquietudini, le insoddisfazioni più elementari della folla. L’uomo che non è sazio, è soggetto a tutte le possibili confusioni, allucinazioni, soprusi. “Coloro che si lasciano salvare da Lui (da Gesù) sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”. (Evangelli Gaudium, 1). “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. (Costituzione Pastorale, Gaudium et spes, 1).